L'Apologia del fascismo: cos'è e cosa NON è

L'Apologia del fascismo: cos'è e cosa NON è

Breve disamina storica della dittatura degli antifascisti

A chi non è mai capitato, passeggiando per un mercatino di paese o incappando in un negozio di t-shirt, di imbattersi in gadget richiamanti il Ventennio? Portachiavi-fascio, busti del Duce, vino nero, bandiere con scritte nostalgiche, aquile imperiali, e chi più ne ha più ne metta.

Tendenzialmente accanto a queste v’è sempre un giovane, con la maglietta del Che intento a sbraitare contro il venditore (che, dal canto suo, quasi sempre vende anche bandiere con falce e martello), rivendicando le conquiste partigiane e richiamando sistematicamente la rinomata Legge Scelba: “Fascisti! Razzisti! In galera!”

Ma è davvero reato vendere, comprare o indossare una maglietta raffigurante il Duce? E, se si, perché continuano a venderle?

Per rispondere a queste ed altre domande, occorre non solo analizzare la norma e vederne le interpretazioni giurisprudenziali, ma anche capirne i retroscena storici e le motivazioni che l’hanno portata in auge (e le motivazioni per le quali ancora non ne viene dichiarata l’incostituzionalità).

 

Nel 1944, in pieno conflitto mondiale, Umberto II di Savoia diviene il nuovo (ed ultimo) Re d’Italia; lo stesso mese il novello Sovrano emette un decreto in cui stabilisce che gli italiani saranno chiamati a scegliere, tramite referendum, se continuare a mantenere la monarchia o trasformare il Bel Paese in una repubblica; al contempo si decretava che si dovesse eleggere un’Assemblea Costituente volta a stabilire la struttura istituzionale del Paese una volta terminata la guerra.

A tale scopo vennero eletti 556, uomini e, per la prima volta, donne: i Padri Costituenti; questi ovviamente provenivano da ogni estrazione politica, essendo manifestazione della volontà popolare: v’erano dunque sì rappresentanti del Partito Comunista, Socialisti, attivisti della Resistenza, ma  anche molti militanti Fascisti, nostalgici della monarchia, conservatori, in buona parte confluiti nel Gruppo Democratico Cristiano.

Tra i moltissimi ricordiamo a titolo esemplificativo il camerata Amintore Fanfani, docente di Dottrine Economiche e redattore del primo articolo della nostra Carta Costituzionale, il quale dette, tra le altre cose, una lezione di democraticità al compagno Togliatti, che aveva pensato di aprire il testo Costituzionale con “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”; fu il fascista a proporre la formula che ormai tutti conosciamo, sottolineando che con “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” si riconosce il lavoro non solo come un diritto, ma anche e soprattutto come un dovere (idea peraltro già ampiamente affermata nella Carta del Lavoro fascista).

Tale premessa è solo finalizzata a sottolineare che la Carta fondamentale della nostra Repubblica fu l’incontro di TUTTE le fedi politiche, e compilata da (galant)uomini che ben conoscevano i propri valori e quelli altrui e rispettosi l’uno delle idee dell’altro (nulla a che vedere coi sbraitanti politicanti d’oggi, che altro non fanno che insultarsi l’un l’altro sui social network!).

Ovviamente, reduci da due conflitti mondiali, gl’italiani di ogni fede politica desideravano nient’altro che un lungo periodo di pace, e s’adoperarono in ogni modo per stabilire nero su bianco il loro ripudio per la guerra, per non rischiare di rivivere le atrocità viste durante il conflitto voluto da Mussolini né assistere di nuovo ai disgustosi scempi posti in essere dalla Resistenza partigiana, che “combatté” il regime perlopiù con esecuzioni, torture e stupri di bambine (vedi al riguardo “La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti”, di Giampaolo Pansa, Rizzoli).

Pertanto la sinistra volle una norma che vietasse la riorganizzazione dell’estinto partito fascista; tuttavia, nella compilazione della stessa, fu proprio Palmiro Togliatti, segretario del PCI, a convincere i suoi colleghi Costituenti a non esagerare nei divieti, in quanto “se nascesse domani in Italia un movimento nuovo, anarchico, lo si dovrebbe combattere sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e svilupparsi solo perché si rifiutano alcuni del loro principii”. Così i Padri Costituenti stabilirono di circoscrivere il divieto ad una fattispecie ben precisa, vietando cioè la ricostituzione del Partito Fascista, e precisamente quello esistito tra il 1919 ed il 1943.

Difatti la norma, che – si noti – non è contenuta nel corpo della Costituzione, ma nelle c.d. Disposizioni Transitorie, stabilisce che: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”; la stessa norma inoltre vietava, per non più di cinque anni (e non certo radiandoli a vita!), ai capi del regime fascista di esercitare il diritto di voto e di essere eletti, derogando così all’art. 48 Cost..

È evidente come la portata della disposizione fosse più simbolica che altro, e finalizzata a rimarcare il ripudio delle atrocità vissute dagli italiani durante il conflitto mondiale, e la volontà di proiettarsi verso un nuovo futuro di pace. Gli stessi Padri Costituenti, comunisti e partigiani compresi, capivano che non sarebbe stato né democratico né possibile impedire ai cittadini di esprimere liberamente il proprio credo politico, e vietare la manifestazione di idee che per più di venti anni avevano avuto larghissimo consenso nel popolo.

Al contrario nei primi articoli della Costituzione Italiana vengono tutelati i “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2), e tra questi diritti inviolabili riconosce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione […] di opinioni politiche” (art. 3); ed ancora “tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto o qualunque altro mezzo di diffusione” (art. 21); dunque, dalla semplice lettura della Legge, diremmo che ognuno è libero tanto d’esser comunista, tanto d’essere anarchico o fascista, ed anche di manifestare questo suo credo.

La Disposizione Transitoria succitata non fu cristallizzata in legge ordinaria fino al 1952, anno in cui venne emanata quella che è divenuta famosa come “Legge Scelba”; questa all’articolo 1 stabilisce che “[…] si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”.

Tale disposizione è assolutamente pertinente al testo voluto dai Costituenti, in quanto sostanzialmente vieta che un gruppo armato, usando la violenza, possa replicare quella che fu la Marcia su Roma, e tentando di rovesciare la nostra democrazia.

Tuttavia la Legge Scelba non si limita a questo nobile proposito, ma va ben (fin troppo!) oltre: all’art. 4 della stessa legge viene configurato il ben noto reato di “Apologia del fascismo”, che punisce anche il singolo che faccia propaganda o esalti gli esponenti o i fatti del fascismo. Ed ancora, l’art. 5 punisce chiunque compia “manifestazioni usuali del disciolto partito fascista”.

Quindi, vietando l’esaltazione dei fatti propri del partito Fascista, la norma rende fondamentalmente illegale dire pubblicamente che (a mero titolo esemplificativo) fu cosa buona bonificare le paludi pontine, o la ricostruzione di molteplici città terremotate: dolenti o nolenti questi sono “fatti del Fascismo”, e non possono essere elogiati. Ed al contempo non possono essere denigrati i valori della Resistenza ed i loro fatti, per cui non possiamo dire (ancora una volta a titolo esemplificativo) che fu un atto vergognoso, riprovevole e vigliacco quello dei partigiani che violentarono ed uccisero la tredicenne Giuseppina Ghersi, giudicata (senza processo) una spia fascista, o la giovane Adalgisa Antonia Carlesima, la “Faccetta Nera” di Trasacco, arsa viva perché aveva osato innamorarsi d’un Ufficiale nazista.

Ovviamente non è lo scrivente il primo ad essersi accorto di questa discrasia, e sulla norma fu subito sollevata questione di legittimità: tuttavia la Consulta del 1958 non se la sentì di abrogare o “limare” il testo della norma, per ovvi motivi: come avrebbe potuto uno dei maggiori organi rappresentativi della democrazia in qualche modo legittimare espliciti richiami ad una dittatura appena dopo 10 anni l’emanazione del nuovo testo Costituzionale?

Tuttavia la Corte Costituzionale, composta pur sempre da uomini di un certo spessore culturale, aggirò il problema emettendo quella che viene tecnicamente definita una sentenza interpretativa di rigetto: pur affermando la legittimità costituzionale della norma ha dovuto precisare che il reato di apologia non si concretizza nella mera “difesa elogiativa” dell’opera fascista, ma in una “esaltazione tale da poter condurre alla ricostituzione del partito fascista”, in modo “idoneo ed efficiente”. Nel testo del dispositivo di legge: “Chi esamini il testo dell'art. 5 della legge isolatamente dalle altre disposizioni, e si limiti a darne una interpretazione letterale, può essere indotto, come è accaduto alle autorità giudiziarie che hanno proposto la questione di legittimità costituzionale, a supporre che la norma denunziata preveda come fatto punibile qualunque parola o gesto, anche il più innocuo, che ricordi comunque il regime fascista e gli uomini che lo impersonarono ed esprima semplicemente il pensiero o il sentimento, eventualmente occasionale o transeunte, di un individuo, il quale indossi una camicia nera o intoni un canto o lanci un grido. Ma una simile interpretazione della norma non si può ritenere conforme alla intenzione del legislatore, il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare.

La denominazione di "manifestazioni fasciste" adottata dalla legge del 1952 e l'uso dell'avverbio "pubblicamente" fanno chiaramente intendere che, seppure il fatto può essere commesso da una sola persona, esso deve trovare nel momento e nell'ambiente in cui è compiuto circostanze tali, da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 74 del 25.11.1958).

Ovviamente e come sempre la norma è poi rimessa all’interpretazione del Giudice di merito per ogni singolo caso: così venne condannato il tifoso che nel 2013 aveva osato indossare una maglietta raffigurante il Duce durante una partita di hockey perché, a dire del Giudice Nomofilattico, essa era stata indossata in Alto Adige in un contesto notoriamente caratterizzato da scontri tra tifoserie con l’uso di simboli nazionalisti; paradossalmente pare non integrasse reato il comportamento dell’organizzatrice della manifestazione in onore della Marcia su Roma che indossava la maglietta “Aushwitzland”.

 

In conclusione, quando si parla di apologia del Fascismo va si considerato il tenore letterale della norma, ma ne vanno compresi anche i limiti, che risiedono nella stessa Carta Costituzionale; tuttavia, anche al di fuori delle aule di Tribunale, oggi basta una parola, un gesto, una maglietta per essere additati come fascisti e razzisti da orde di moralisti ignoranti, nostalgici d’una Resistenza che non hanno mai vissuto, e che col loro atteggiamento vanno ad uccidere essi stessi la democrazia, limitando la libertà d’espressione di chi la pensa diversamente e non rendendosi neppure conto di offendere la Memoria di chi davvero fu vittima del razzismo, quello vero, o delle politiche del fascismo, quello del Ventennio.

 

Dott. Vito Di Renzo




Pubblicato da Arte e Architettura del Ventennio
In data: 09-05-2019
Categoria: Storia
Album: Architettura ed Architetti Italiani nel Ventennio
Location: Tutta Italia

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