Mussolini fonda i Fasci di Combattimento a Milano, così iniziò il Fascismo



23 MARZO 1919 – 23 MARZO 2019: UN CENTENARIO SCOMODO – di Luigi Copertino

Il 23 marzo 1919, a Milano, in una sala concessa in affitto dall’industriale massone ed ebreo Cesare Goldmann, nascevano i “Fasci di Combattimento”. Oggi ricorre il centenario di quell’evento destinato a cambiare profondamente la struttura sociale dell’Italia e la storia del mondo intero.

In quella sala milanese cento anni fa si riunirono sindacalisti rivoluzionari, mazziniani, nazionalisti, anarchici, futuristi, socialisti massimalisti, interventisti di destra e di sinistra, sindacalisti corridoniani e altre componenti della sinistra eterodossa polemica verso il dottrinarismo del socialismo ufficiale.

Dal quel congresso, di poche decine di uomini, che la stampa all’epoca quasi ignorò, nacque il cosiddetto “Programma di San Sepolcro”, dal nome della piazza del convegno, alla cui stesura collaborò il sindacalista rivoluzionario mazziniano Alceste De Ambris (che finì esule antifascista a Parigi).

Era il manifesto politico del primo fascismo, quello di sinistra, socialista ma anche nazionalista democratico, con forti pulsioni anarchiche ed anticlericali. Basta leggere quel manifesto per toccare con mano l’essenza rivoluzionaria, nient’affatto conservatrice, del documento. In esso si parla di gestione operaia dei servizi pubblici, di espropriazione parziale delle ricchezze, di minimi salariali, di partecipazione dei lavoratori agli utili, di otto ore giornaliere di lavoro e di istituzione di consigli nazionali di tecnici del lavoro con poteri legislativi.

Tutti temi che ritroveremo nell’ultimo documento promulgato dal fascismo morente e del quale diremo. Il lettore trova il Programma sansepolcrista nella sezione di “documentazione storica” sottostante.

I Fasci di Combattimento non ebbero successo elettorale. Fu così che Mussolini, mentre imperversava il cosiddetto “biennio rosso”, iniziò una virata verso destra. La Rivoluzione russa aveva dato motivo al partito socialista – di lì a poco a Livorno nel 1921 sarebbe nato da una sua costola il PCI (tra i fondatori quel Nicolino Bombacci che sarebbe morto a Salò in nome del socialismo fascista) – di mobilitare le masse nel generale malcontento del primo dopoguerra.

Come riconoscono, oggi, tutti gli storici più accreditati, da Renzo De Felice ad Emilio Gentile, la sinistra italiana non aveva in quegli anni alcuna effettiva possibilità di fare la rivoluzione come in Russia. I dirigenti del PSI – un partito che doveva la sua fisionomia proprio a Mussolini il quale, negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, era stato determinante per il trionfo interno della corrente massimalista, contro i moderati, conquistando anche la direzione dell’“Avanti” – ben conoscevano i limiti della loro azione politica. Tuttavia non esitarono ad usare spregiudicatamente il mito della Rivoluzione d’Ottobre per spaventare la borghesia industriale ed agraria italiana.

La quale in effetti credette al pericolo rosso ed iniziò ad appoggiare quegli sparuti squadristi in camicia nera –  ossia la camicia sporca di carbone dei ferrovieri (questa l’origine socialista del “nero” fascista) – che, unici, si opponevano nelle piazze alle squadracce socialiste. La militarizzazione della politica non era stata una invenzione dei fascisti ma fu una caratteristica del tempo, ossia dell’immediato dopoguerra, che coinvolse anche il partito socialista ed i sindacati operai i quali organizzavano i loro militanti in squadre armate per il picchettaggio durante gli scioperi ed a scopo di intimidazione degli avversari politici o di classe.

I fascisti, la cui ideologia in gestazione mirava ad unire socialismo e nazionalismo, si opponevano al socialismo ufficiale perché internazionalista e non perché essi fossero reazionari ma finirono, inevitabilmente, in quelle circostanze storico-sociali per scivolare verso destra. La destra, attenzione!, nazionalista più che quella liberale. Ciò che consentì, sotto il profilo ideologico, questo scivolamento fu certamente il nazionalismo ma anche l’antiparlamentarismo corporativista-sindacalista che univa fascisti e nazionalisti, benché con esegesi divergenti circa il ruolo dei sindacati.

Tuttavia fu l’intera classe dirigente del vecchio liberalismo risorgimentale e monarchico ad individuare nei fascisti uno strumento utile per fermare la rivoluzione rossa che si credeva in atto. Mussolini, che ben conoscendolo dall’interno aveva perfettamente compreso le velleità rivoluzionarie del Partito Socialista, stette al gioco e – creando tensioni all’interno del fascismo più rivoluzionario – decise di aprire ai cosiddetti “fiancheggiatori di destra” che finirono per portarlo al potere nel 1922.

Nel frattempo, a Fiume, Gabriele D’Annunzio guidava l’avventura di un gruppo di sindacalisti mazziniani e rivoluzionari, tra i quali il già citato Alceste De Ambris, nel tentativo di sperimentare una nuova forma di democrazia sociale ed organica su base corporativo-sindacale. L’esperimento attirò l’attenzione di Lenin che inviò nella città istriana Cicerin, un commissario del popolo della Russia sovietica, nella speranza di fare di Fiume un centro insurrezionale europeo.

Al fianco di D’Annunzio vi erano anche alcuni nazionalisti ma il grosso dei legionari fiumani erano di estrazione sindacalista e perfino libertaria. Sono oggi noti agli storici l’uso di droghe e la sfrenata libertà sessuale che imperversarono nella città durante la reggenza dannunziana facendo il paio con la nuova estetica politica inventata dai legionari, lo stile rituale della mobilitazione delle masse. Dall’avventura fiumana nacque la cosiddetta “Carta del Carnaro”, la costituzione dello Stato del Libero Comune di Fiume, che Renzo De Felice ha giudicato estremamente avanzata nella linea del socialismo democratico risorgimentale. Vi si tratteggiava una organizzazione sociale corporativista, una sorta di democrazia sociale, che poi il fascismo riprese ma anche in parte edulcorò.

I testi di tale costituzione sono due. Il primo, molto più tecnicamente incisivo sotto il profilo giuridico, fu elaborato dal citato Alceste De Ambris. Il secondo ebbe per autore lo stesso D’Annunzio, il quale, ritoccando il testo del De Ambris, vi introdusse uno stile linguistico più aulico con forti richiami ideali, di tipo neo-medioevale, all’esperienza dei comuni italiani dell’età di mezzo – insieme all’evidente esaltazione di una religione civile neopaganeggiante (“Un grande popolo non è soltanto quello che crea il suo dio a sua simiglianza”; “la Decima Musa”; il “genio votivo”; “l’apparizione dell’uomo novissimo”) – ma senza cadere in illusorie nostalgie passatiste dato che, i contenuti politici, sociali ed economici anche della versione dannunziana, erano fortemente moderni e avanzati, ricalcando strettamente il testo del De Ambris. Nella sezione sottostante dedicata alla “documentazione storica” il lettore trova entrambi i testi della costituzione fiumana.

Nonostante il compromesso, svilente, con i “fiancheggiatori”, Mussolini, dal canto suo, non venne mai meno all’idea di realizzare quella rivoluzione sociale e socialista che era nel primo programma fascista. Il realismo politico e le contingenze concrete non permisero, a regime insediato, di arrivare fino in fondo ma sul piano dei principii ed in parte anche delle realizzazioni il fascismo al potere avviò un processo di modernizzazione dirigista dell’Italia ponendo le basi dello Stato sociale.

Questo sforzo trovò codificazione nella “Carta del Lavoro” del 1927, nella quale chi ben sa leggere trova anticipati i fondamenti sociali della Repubblica democratica ed antifascista del dopoguerra: dalla dichiarazione della proprietà come funzione sociale (ripresa dalla Carta del Carnaro ed espressione del rifiuto della concezione liberista ed esclusivamente privatista della proprietà) fino al contratto collettivo di lavoro con efficacia erga omnes ed alla funzione pubblica dei sindacati datoriali e dei lavoratori.

Anche la Carta del Lavoro ebbe più formulazioni: un primo testo, molto avanzato sulla strada di una democrazia sindacale corporativa più favorevole al lavoro che al capitale, fu elaborato da Giuseppe Bottai, mazziniano di sinistra (poi convertitosi alla fede cattolica), il ministro e l’intellettuale più colto della componente di sinistra del fascismo al potere; un secondo testo fu invece elaborato dal guardasigilli Alfredo Rocco, che rappresentò l’anima moderatamente “sociale” e piuttosto autoritaria del nazionalismo prefascista e socialisteggiante di Enrico Corradini. Rocco, in quanto proveniente da destra, era più sensibile alle pressioni della Confindustria sicché il suo testo era molto meno avanzato e più moderato di quello di Bottai. Alla fine Mussolini, sempre per non alienarsi i “fiancheggiatori”, scelse quest’ultimo non senza, però, integrarlo con importanti elementi presi dal testo di Bottai. Il testo finale è nella sezione di “documentazione storica” sottostante.

La Carta del Lavoro, con il suo esperimento corporativista, entusiasmò l’opinione pubblica mondiale ed ad essa guardarono, come ad un testo rivoluzionario ed ad un modo inedito di affrontare il problema sociale, noti intellettuali da Ezra Pound a George Bernard Shaw, da Thomas Stearn Eliot a Gilbert Keith Chesterton e tutta una schiera di filosofi, scrittori, artisti, scienziati di fama internazionale. Se, come ovvio, alla Carta del Lavoro si ispirarono i movimenti fascisti, che in quegli anni nascevano ovunque in Europa ed in tutto il mondo, non va dimenticato che ad essa guardarono anche le democrazie liberali. Franklin Delano Roosevelt la considerava un documento basilare per costruire una democrazia sociale ed inviò in Italia i suoi tecnici ad imparare la politica economica dirigista, messa in atto dal regime, per farne il nocciolo profondo del suo New Deal.

Anche i laburisti inglesi applaudirono alla “terza via” fascista e non a caso il capo della “British Union of Fascists”, sir Oswald Mosley, proveniva dal partito laburista. Il comunista francese Jacques Doriot fondò il Partito Popolare Francese ispirandosi dichiaratamente, in polemica con la vecchia “reazionaria” Action Francaise di Charles Maurras, a quello che, più tardi, lo scrittore “collabò” Drieu La Rchelle avrebbe definito “socialismo fascista” ed il poeta maurrasiano Robert Brasillach “fascismo immenso e rosso”.

Nel clima del Concordato del 1929 con la Chiesa, la Carta del Lavoro trovò anche la benedizione pontificia. Negli anni del regime, il fascismo, messo intelligentemente da parte l’antico anticlericalismo e individuata nel Cattolicesimo la religione nazionale, si mostrò, almeno in superficie, cattolicamente compatibile. Nel mondo cattolico si sperò perfino nel “battesimo” del regime. L’esperimento corporativista, del resto, rispondeva, per certi aspetti, agli ideali propri del cattolicesimo sociale maturati a partire dal XIX secolo in polemica con l’individualismo liberale e laicista della Rivoluzione Francese.

Nell’enciclica “Quadragesimo Anno” (1931) Pio XI approvò l’esperimento italiano non senza, tuttavia, criticarne l’impianto hegeliano per il quale i sindacati venivano quasi assorbiti, quali enti pubblici e strumento politico, nella struttura totalitaria dello Stato Etico. I cattolici che guardavano, per riformarlo, al corporativismo del regime – tra di essi Amintore Fanfani, giovane cattedratico di storia economica all’Università del Sacro Cuore, ma anche lo stesso fondatore di tale università, padre Agostino Gemelli, senza dimenticare che perfino il perseguitato Alcide De Gasperi dal suo rifugio in Vaticano scriveva, con lo pseudonimo di “Spectator”, articoli di critico elogio della politica sociale del regime cercando di distinguere il “corporativismo buono” da quello “cattivo” – ne chiedevano una riforma all’insegna del “libero sindacato nella professione corporativisticamente organizzata” (Carta di Malines). Ossia chiedevano la libertà di organizzazione sindacale pur all’interno delle corporazioni intese quali organi dello Stato corrispondenti ai settori dell’economia nazionale. Una riforma del corporativismo fascista nel senso auspicato dai cattolici avrebbe comportato, ad esempio, libere elezioni dei rappresentanti sindacali al posto delle nomine dall’alto. Un riformismo democratizzante similare, d’altronde, era anche l’obiettivo degli esponenti del fascismo di sinistra come Bottai.

E’ stato notato che l’inattuato articolo 39 della vigente Costituzione repubblicana, che sancisce il riconoscimento giuridico dei sindacati a base democratica e l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di lavoro, così come l’articolo 99, che prevede un organo costituzionale quale il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), altro non sono che la democratizzazione o il tentativo di democratizzazione, secondo i voti dei cattolici formatisi negli anni del regime, delle strutture corporativiste ereditate del fascismo.

I successi internazionali ottenuti negli anni ’30 – conquista dell’Etiopia, guerra di Spagna – provocarono uno scontro tra l’Italia fascista e le democrazie occidentali con le quali il nostro Paese era politicamente alleato dai tempi della prima guerra mondiale. L’avversione francese ed inglese verso le aspirazioni coloniali italiane in Africa, indusse il regime fascista all’avvicinamento alla Germania nazista, con la cui ideologia – ci dice Renzo De Felice, il quale ritiene storicamente falsa l’espressione di uso comune “nazifascismo” – il fascismo aveva ben pochi punti in comune e molti altri assolutamente opposti. Fu l’avvio di un percorso che sarebbe sfociato in una tragedia. A partire dalle leggi razziali, gradualmente il regime iniziò a perdere il consenso popolare interno e quello internazionale.

L’avvicinamento alla Germania era, del resto, malvisto dalle stesse gerarchie del regime. Ad esso si opponevano, e cercarono di sabotarlo, i Bottai, i Grandi (come ambasciatore in Inghilterra, Dino grandi cercò di evitare l’estrema rottura con Londra) e perfino Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini. Il punto stava nel fatto che il successo aveva montato la testa al duce. Mussolini iniziò, per davvero, a ritenersi infallibile, come recitava la propaganda di Leo Longanesi (“il Duce ha sempre ragione”).

Giuseppe Bottai ci ha lasciato testimonianza di questo mutamento psicologico nel capo del fascismo. Dopo la guerra etiopica, egli si recò da Mussolini per convincerlo – ora che il regime era ormai ben saldo ed al massimo del consenso popolare – ad avviare un graduale processo di liberalizzazione (Bottai sperava di trasformare la “provvisoria” dittatura in una democrazia sociale corporativa) ma invece dell’uomo, che aveva amato e stimato, trovò, innanzi a sé, fredda e glaciale, la statua, l’idolo delle masse.

Dalle stelle alle stalle! Tutti i Cesari o i Napoleoni prima o poi cadono dal piedistallo sul quale si sono o sono stati innalzati. Anche Mussolini.

Con la Repubblica Sociale il fascismo tornò idealmente alle origini socialiste. Nelle intenzioni dei suoi costituenti, l’estremo Stato fascista avrebbe dovuto prefigurare una repubblica presidenziale democratica, con progressiva liberalizzazione della stampa e dei partiti di opposizione, ed una democrazia sociale, per certi versi mazziniana (Giovanni Spadolini, come tanti insospettabili del dopoguerra, aveva aderito alla RSI) e per altri “fiumana”. La “socializzazione delle imprese”, promossa dal fascismo repubblicano, voleva inaugurare un assetto co-gestionario dell’economia nel quale i lavoratori sarebbero stati chiamati a partecipare alla gestione ed agli utili aziendali, nel ripristino della libertà sindacale.

Il documento politico, vera e propria costituzione della Repubblica Sociale Italiana, che consacrò questo ritorno alle origini fu il cosiddetto “Manifesto dei 18 punti di Verona”, partorito dal primo ed unico Congresso del Partito Fascista Repubblicano svoltosi nella città scaligera dal 14 al 15 novembre 1943. Il documento è nella sezione di documentazione storica sottostante. Esso sancisce la costituzione dei consigli di cogestione aziendale tra datori di lavoro e lavoratori – un principio che ritroviamo, per volontà dei costituenti di ispirazione cattolica, nell’inattuato articolo 46 della vigente costituzione repubblicana (la cogestione, detta codeterminazione, nel dopoguerra ha invece trovato applicazione nella Germania socialdemocratica e nei Paesi scandinavi) – e l’estromissione dall’amministrazione delle imprese del capitale finanziario il cui ruolo veniva ridotto a quello di mero finanziatore dell’azienda. Inutile dire che i decreti attuativi della socializzazione delle imprese, intervenuti solo alla fine del 1944, furono sabotati dai nazisti e dagli industriali.

Come detto, Nicolino Bombacci, il “comunista in camicia nera” nonché fondatore insieme a Gramsci del PCI, aderì all’ultimo fascismo inseguendo il sogno della realizzazione del socialismo umano proposto dal disperato appello finale della sinistra fascista. Bombacci scelse Salò anche per un senso di gratitudine verso Mussolini che lo aveva personalmente  protetto ed aiutato, anche economicamente, negli anni del regime. Perché Mussolini era questo: un grande cinico, un abile e machiavellico stratega, un opportunista politico ma anche un uomo capace di grandi ideali e soprattutto di grandi atti di generosità che lasciavano trasparire un cuore non insensibile all’amore per il prossimo, forse ereditato dall’insegnamento religioso di sua madre, Rosa Maltoni, fervente cattolica, mai del tutto spentosi in lui (la questione sulla effettiva conversione in extremis del duce è da anni dibattuta dagli storici). Di questa generosità si accorse il suo vecchio amico repubblicano e socialista Pietro Nenni. Mussolini conosceva Nenni sin dalla giovinezza e nel 1914 lo aveva sostenuto dalle pagine de “L’Avanti” quando l’amico si ritrovò, insieme ad Alceste De Ambris, a guidare il moto rivoluzionario tosco-marchigiano-romagnolo detto della “settimana rossa”. Catturato nel 1944 dai tedeschi, Nenni fu liberato per il personale intervento di Mussolini e così salvò la pelle.

Con il Manifesto di Verona, Mussolini aveva l’intenzione di disseminare la pianura padana, ossia l’Italia industriale, di “mine sociali” anche per vendicarsi della Monarchia e degli industriali ma soprattutto perché sperava di poter avere ancora un ruolo politico nell’Italia del dopoguerra. Il ritorno al fascismo socialista, questa la sua illusione, avrebbe dovuto riaprire una possibilità di sopravvivenza politica ai tanti fascisti che durante gli anni del regime avevano inutilmente atteso “la seconda fase della rivoluzione”, quella nella quale si sarebbero fatti i conti con i fiancheggiatori espellendoli per realizzare il socialismo, ed ai tanti giovani che formatisi sotto il regime avevano creduto nella sua potenzialità rivoluzionaria e sociale e che lo avevano seguito a Salò.

Mussolini, alla fine, comprese che si trattava di una speranza senza fondamento. Fu però buon profeta. Infatti pare che, salvando dalla fucilazione alcuni democristiani, tra di essi vi era anche Enrico Mattei, catturati dai repubblichini, abbia pronosticato che soltanto la Chiesa ed i cattolici avrebbero potuto salvare le sorti dell’Italia nel dopoguerra. Chissà se in questa “profezia” ebbe un qualche ruolo la memoria delle sue schermaglie giornalistiche, nel Trentino ancora asburgico del primo ante guerra, quando, esule per motivi politici dall’Italia, dalle colonne del giornale irredentista, diretto dal suo amico socialista Cesare Battisti, egli polemizzava con l’esponente del cattolicesimo sociale altoatesino Alcide De Gasperi chiamandolo “austriacante”.

Il “Manifesto di Verona”, costituzione inattuata di uno Stato che ebbe vita breve, diventò il primo documento programmatico della formazione politica alla quale, il 26 dicembre 1946, i fascisti, ormai orfani di Mussolini ed “esuli in Patria”, diedero vita ossia il Movimento Sociale Italiano, che sin dal nome richiamava l’esperienza della Repubblica Sociale. Ma i vecchi vizi che già furono del fascismo storico, ossia la tendenza nell’impossibilità di “sfondare a sinistra” al patteggiamento con le forze conservatrici di destra, che nel dopoguerra erano oltretutto filoamericane ossia in politica estera schierate con i nemici bellici del fascismo repubblicano, sono riapparsi anche nel MSI.

In quel partito, infatti, ad una base, soprattutto giovanile, nutrita agli ideali del socialismo nazionale, antiamericana e terzaforzista, ossia contraria sia al capitalismo occidentale che al comunismo sovietico, in nome del mito – ereditato dall’europeismo nazionalsocialista – dell’“Europa Nazione”, e che la socializzazione ancora invocava nei suoi slogan del tipo “Italia, Socializzazione, Rivoluzione”, ha sempre corrisposto una classe dirigente missina dedita al traccheggiamento, nel sottobosco parlamentare e ministeriale, con qualunque forza conservatrice in virtù del solo anticomunismo tanto più becero quanto più ribollente degli umori non sopiti della guerra civile.

Mentre i giovani neofascisti sognavano ancora la realizzazione dello “Stato Nazionale del Lavoro” e della “Patria Socialista”, i loro dirigenti flirtavano con monarchici, liberali, democristiani di destra. Questo spiega, negli anni del secondo dopoguerra, la formazione al di fuori del Msi, partito riconosciuto obtorto collo come legale nell’Italia repubblicana, di organizzazioni più radicali ed extraparlamentari, ben presto diventate a loro volta manovalanza delle strategie occulte dei servizi segreti e della Cia che le infiltrarono per trasformarle in gruppi di bombaroli e stragisti. I più intellettuali ed intelligenti tra quei giovani neofascisti presero, invece, la strada della diaspora culturale, nei campi del giornalismo, dell’università, dell’editoria.

L’immagine di “partito d’ordine” che la dirigenza missina conferì al Msi, immagine che disgustava la sua base giovanile interna, preparò il parto negli anni ’90, con la fine della prima Repubblica, di una forza nazional-conservatrice di stampo liberale, ossia Alleanza Nazionale, che diventò l’alleato principale della discesa in campo, pro domo sua, di Silvio Berlusconi. In AN la dicotomia tra “sociali” e “conservatori” si riprodusse. Se da un lato una delle sue componenti si identificava con la “destra sociale” dall’altro lato l’altra componente sentiva sé stessa semplicemente come neo-liberale. L’attuale partito di Fratelli d’Italia è l’erede di Alleanza Nazionale e benché, sull’onda del sovranismo populista, abbia dato l’impressione di voler riprendere certi temi da “destra sociale” in realtà, more solito, sta anch’esso sbandando verso il conservatorismo nazionale come dimostra l’adesione al trumpismo ed all’orbanismo. Più di sinistra fascista appaiono, nel panorama politico attuale, gruppi come Casapound. Del resto proprio la mancanza di ogni idea, anche minima, di socialismo nazionale, tutto riducendosi al solo nazionalismo neoconservatore, è la caratteristica emergente del sovranismo attuale.

Luigi Copertino

 

DOCUMENTAZIONE STORICA

IL MANIFESTO DEI FASCI DI COMBATTIMENTO (1919) – PROGRAMMA DI SAN SEPOLCRO.

Italiani! Ecco il programma di un movimento genuinamente italiano. Rivoluzionario perché antidogmatico; fortemente innovatore antipregiudiziaiolo.

Per il problema politico:
Noi vogliamo:
a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne.
b) Il minimo di età per gli elettori abbassato ai I 8 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni.
c) L’abolizione del Senato.
d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.
e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale, delle comunicazioni, ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro.


Per il problema sociale:
Noi vogliamo:
a) La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la giornata legale di otto ore di lavoro.
b) I minimi di paga.
c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria.
d) L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.
e) La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti.
f) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età, proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni.

Per il problema militare:
Noi vogliamo:
a) L’istituzione di una milizia nazionale con brevi servizi di istruzione e compito esclusivamente difensivo.
b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi.
c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione italiana nel mondo.

Per il problema finanziario:
Noi vogliamo:
a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze.
b) II sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense Vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi.
c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell’ 85% dei profitti di guerra.

(«II popolo d’Italia», 6 giugno 1919)

 

CARTA DEL CARNARO 1920 – TESTO PREDISPOSTO DA ALCESTE DE AMBRIS

Premessa

Il Popolo della Libera Città di Fiume, in nome delle sue secolari franchigie e dell’inalienabile diritto di autodecisione, riconferma di voler far parte integrante dello Stato Italiano mediante un esplicito atto d’annessione; ma poiché l’altrui prepotenza gli vieta per ora il compimento di questa legittima volontà, delibera di darsi una Costituzione per l’ordinamento politico ed amministrativo del Territorio (Città, Porto e Distretto) già formante il “corpus separatum” annesso alla corona ungarica, e degli altri territori adriatici che intendono seguirne le sorti.

Parte generale

Art. 1 – La Libera Città di Fiume, col suo porto e distretto, nel pieno possesso della propria sovranità, costituisce unitamente ai territori che dichiarano e dichiareranno di volerle essere uniti, la Repubblica del Carnaro.

Art. 2 – La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali.

Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra per quanto è possibile i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono.

Art. 3 – La Repubblica si propone inoltre di provvedere alla difesa dell’indipendenza, della libertà e dei diritti comuni, di promuovere una più alta dignità morale ed una maggiore prosperità materiale di tutti i cittadini; di assicurare l’ordine interno con la giustizia.

Art. 4 – Tutti i cittadini della Repubblica senza distinzione di sesso sono uguali davanti alla legge. Nessuno può essere menomato o privato dell’esercizio dei diritti riconosciuti dalla Costituzione se non dietro regolare giudizio e sentenza di condanna.

La Costituzione garantisce a tutti i cittadini l’esercizio delle fondamentali libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione e di associazione. Tutti i culti religiosi sono ammessi; ma le opinioni religiose non possono essere invocate per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge.

L’abuso delle libertà costituzionali per scopi illeciti e contrari alla convivenza civile può essere punito in base a leggi apposite, le quali però non potranno mai ledere il principio essenziale delle libertà stesse.

Art. 5 – La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini senza distinzione di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.

Art. 6 – La Repubblica considera la proprietà come una funzione sociale, non come un assoluto diritto o privilegio individuale. Perciò il solo titolo legittimo di proprietà su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro che rende la proprietà stessa fruttifera a beneficio dell’economia generale.

Art. 7 – Il porto e le ferrovie comprese nel territorio della Repubblica sono proprietà perpetua ed inalienabile dello Stato con un ordinamento autonomo tale da consentire a tutti i popoli amici che ne hanno bisogno di servirsene con garanzia di assoluta parità di diritti commerciali con i cittadini fiumani.

Art. 8 – Una Banca della Repubblica controllata dallo Stato avrà l’incarico dell’emissione della carta-moneta e di tutte le altre operazioni bancarie. Un’apposita legge ne regolerà il funzionamento e stabilirà i diritti e gli oneri delle banche esistenti o che intendessero stabilirsi nel territorio della Repubblica.

Art. 9 – L’esercizio delle industrie, delle professioni e dei mestieri è libero per tutti i cittadini della Repubblica. Le industrie stabilite o da stabilirsi con capitale straniero saranno soggette alle norme di una legge speciale che regolerà pure l’esercizio professionale degli stranieri.

Art. 10 – Tre elementi concorrono a formare le basi costituzionali della Repubblica:

a) i Cittadini;

b) le Corporazioni;

c) i Comuni.

Dei cittadini

Art. 11 – Sono cittadini della Repubblica tutti gli attuali cittadini della Libera Città di Fiume e degli altri territori che ad essa dichiarano di volersi unire; tutti coloro cui venga conferita la cittadinanza per meriti speciali; tutti coloro che ne faranno domanda, quando questa sia accettata dagli organi competenti, in base alla apposita legge.

Art. 12 – I cittadini della Repubblica entrano nel pieno possesso di tutti i diritti civili e politici non appena compiuto il ventesimo anno di età, diventando perciò elettori ed eleggibili per tutte le cariche pubbliche senza distinzione di sesso. Saranno tuttavia privati dei diritti politici, con regolare sentenza, tutti quei cittadini:

a) che risultano condannati a pene infamanti;

b) che rifiutano di prestare il servizio militare per la difesa del paese o di pagare le tasse;

c) che vivono parassitariamente a carico della collettività, salvo casi d’incapacità fisica al lavoro dovuta a malattia od a vecchiaia.

Delle corporazioni

Art. 13 – I cittadini che concorrono alla prosperità materiale ed allo sviluppo civile della Repubblica con un continuativo lavoro manuale ed intellettuale sono considerati cittadini produttivi e sono obbligatoriamente inscritti in una delle seguenti categorie, che costituiscono altrettante corporazioni, e cioè:

la. Operai salariati dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e dei trasporti. A questa categoria appartengono pure i piccoli artigiani ed i piccoli proprietari di terre che non hanno dipendenti se non in limitatissimo numero o come aiuto saltuario e temporaneo.

2a. Personale tecnico ed amministrativo di aziende private industriali ed agricole, purché non si tratti di comproprietarii delle aziende stesse.

3a. Addetti alle aziende commerciali non operai propriamente detti, purché non si tratti di comproprietarii delle aziende stesse.

4a. Datori di lavoro dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e dei trasporti. S’intendono datori di lavoro coloro che, essendo proprietarii o comproprietarii di aziende, si occupano personalmente direttamente e continuativamente della gestione delle aziende stesse.

5a. Impiegati pubblici statali e comunali di qualsiasi ordine.

6a. Insegnanti delle scuole pubbliche e studenti degli istituti superiori.

7a. Esercenti professioni libere non comprese nelle 5 categorie precedenti.

Le cooperative di produzione, lavoro e consumo tanto agricole che industriali costituiscono esse pure una corporazione che può essere rappresentata esclusivamente dagli amministratori delle cooperative stesse.

Art. 14 – Le corporazioni godono di piena autonomia per quanto riguarda la loro organizzazione e funzionamento interno. Esse hanno il diritto d’imporre una tassa commisurata sul salario, stipendio profitto d’azienda, o lucro professionale degli inscritti, per provvedere ai propri bisogni finanziari. Le corporazioni hanno pure il diritto di possedere in nome collettivo beni di qualsiasi specie.

I rapporti della Repubblica con le corporazioni e delle corporazioni fra loro sono regolati dalle norme contemplate agli art. 16, 17 e 18 della presente Costituzione per i rapporti fra i poteri centrali della Repubblica e i Comuni, e dei Comuni fra loro.

Gli inscritti a ciascuna corporazione costituiscono un corpo elettorale per l’elezione dei propri rappresentanti al Consiglio Economico secondo le norme fissate dall’art. 23 della Costituzione.

Dei Comuni

Art. 15 – I Comuni sono autonomi fin dove l’autonomia non è limitata dalla Costituzione ed esercitano tutti i poteri che non sono da questa attribuiti agli organi legislativi esecutivi e giudiziari della Repubblica.

Art. 16 – I Comuni sono in diritto di darsi quella Costituzione interna che ritengono migliore; ma devono chiedere per le loro costituzioni la garanzia della Repubblica che l’assume quando:

a) esse nulla contengono di contrario alle prescrizioni della Costituzione della Repubblica;

b) risultino accettate dal popolo e possano essere riformate quando la maggioranza assoluta dei cittadini lo richieda.

Art. 17 – I Comuni hanno diritto di stipulare fra loro accordi, convenzioni e trattati sopra oggetti di legislazione e di amministrazione; però devono presentarli all’esame del potere esecutivo della Repubblica, il quale, se ritiene che tali accordi, convenzioni o trattati siano in contrasto con la Costituzione della Repubblica o con i diritti di altri Comuni, li rimanda al giudizio della Corte Suprema che può dichiararne l’incostituzionalità. In tal caso il potere esecutivo della Repubblica è autorizzato ad impedirne l’esecuzione.

Art. 18 – Allorché l’ordine interno di un Comune è turbato o quando è minacciato da un altro Comune, il potere esecutivo della Repubblica è autorizzato ad intervenire:

a) se l’intervento è richiesto dalle autorità del Comune interessato;

b) se l’intervento è richiesto da un terzo dei cittadini in possesso dei diritti politici del Comune stesso.

Art. 19 – I Comuni hanno segnatamente il diritto:

a) di organizzare l’istruzione primaria in base alle norme stabilite dall’art. 38 della Costituzione;

b) di nominare i giudici comunali;

c) di organizzare e mantenere la polizia comunale;

d) d’imporre tasse;

e) di contrarre prestiti nel territorio della Repubblica. Quando invece tali prestiti devono essere contratti all’estero occorre la garanzia del governo che la concede soltanto in caso di riconosciuta necessità.

Del potere legislativo

Art. 20 – Il potere legislativo è esercitato da due corpi elettivi:

a) La Camera dei Rappresentanti;

b) Il Consiglio Economico.

Art. 21 – La Camera dei Rappresentanti viene eletta a suffragio universale diretto e segreto da tutti i cittadini della Repubblica che hanno compiuto il 20° anno di età e che sono in possesso dei diritti politici. Ogni cittadino della Repubblica avente diritto a voto è eleggibile a membro della Camera dei Rappresentanti.

I rappresentanti vengono eletti per un periodo di tre anni, in ragione di uno ogni mille elettori ed in ogni caso in numero non inferiore a 30. Tutti gli elettori formano un unico corpo elettorale e l’elezione si compie a suffragio universale segreto e diretto col sistema della rappresentanza proporzionale.

Art. 22 – La Camera dei Rappresentanti tratta e legifera sui seguenti oggetti che sono di sua competenza:

a) Codice Penale e Civile;

b) Polizia;

c) Difesa Nazionale;

d) Istruzione pubblica secondaria;

e) Belle Arti;

f) Rapporti dello Stato con i Comuni.

La Camera dei Rappresentanti si riunisce ordinariamente una volta all’anno nel mese di ottobre.

Art. 23 – Il Consiglio Economico si compone di 60 membri eletti nelle seguenti proporzioni a suffragio universale segreto e diretto, col sistema della rappresentanza proporzionale:

15 dagli operai e lavoratori della terra;

15 dai datori di lavoro;

5 dai tecnici industriali ed agricoli;

5 dagli impiegati amministrativi delle aziende private;

5 dagli insegnanti delle scuole pubbliche e dagli studenti degli istituti superiori;

5 dai professionisti liberi;

5 da impiegati pubblici;

5 dalle cooperative di lavoro e di consumo.

Art. 24 – I membri del Consiglio Economico vengono eletti per un periodo di due anni. Per essere eleggibili occorre appartenere alla categoria rappresentata.

Art. 25 – Il Consiglio Economico si aduna ordinariamente due volte all’anno, nei mesi di maggio e di novembre, per trattare e legiferare sui seguenti oggetti, che sono di sua competenza:

a) Codice Commerciale e Marittimo;

b) Disciplina del lavoro;

c) Trasporti;

d) Lavori pubblici;

e) Trattati di commercio, dogane, ecc.;

f) Istruzione tecnica e professionale;

g) Legislazione sulle Banche, sulle Industrie e sull’esercizio delle professioni e mestieri.

Art. 26 – La Camera dei Rappresentanti ed il Consiglio Economico si riuniscono insieme una volta all’anno nella prima quindicina di dicembre formando l’Assemblea Nazionale, che tratta e legifera sui seguenti oggetti di sua competenza:

a) rapporti internazionali;

b) finanza e tesoro della Repubblica;

c) istruzione superiore;

d) revisione della Costituzione.

Del potere esecutivo

Art. 27 – Il potere esecutivo della Repubblica si compone di sette Commissari eletti nel modo che segue:

Presidenza e Affari Esteri, Finanza e Tesoro, Istruzione pubblica: dall’Assemblea Nazionale;

Interni e Giustizia, Difesa Nazionale: dalla Camera dei Rappresentanti;

Lavoro, Economia pubblica: dal Consiglio Economico.

Art. 28 – Il potere esecutivo siede in permanenza e delibera collettivamente su tutti gli oggetti che non siano d’ordinaria amministrazione. Il Presidente rappresenta la Repubblica di fronte agli altri paesi, dirige le discussioni ed ha voto decisivo in caso di parità. I Commissari sono eletti per un anno e sono rieleggibili per una volta soltanto. Dopo l’interruzione di un anno possono però essere nuovamente eletti.

Del potere giudiziario

Art. 29 – Il potere giudiziario si compone:

a) dei giudici municipali;

b) dei giudici del lavoro;

c) dei giudici di secondo grado;

d) della giuria;

e) della Corte Suprema.

Art. 30 – I giudici municipali giudicano sulle controversie civili e commerciali fino al valore di cinquemila lire e sui crimini che importano pene non superiori ad un anno. I giudici di primo grado sono eletti in proporzione della popolazione da tutti gli elettori dei vari comuni.

Art. 31 – I giudici del lavoro giudicano sulle controversie individuali fra salariati o stipendiati e datori di lavoro. Essi costituiscono uno o più collegi di giudici eletti dalle Corporazioni che eleggono il Consiglio Economico, nelle seguenti proporzioni: due dagli operai industriali e dai lavoratori della terra, due dai datori di lavoro, uno dai tecnici industriali ed agricoli, uno dai professionisti liberi, uno dagli impiegati amministrativi delle aziende private, uno dagli impiegati pubblici, uno dagli insegnanti pubblici e dagli studenti degli istituti superiori, uno dalle cooperative di lavoro e di consumo. Ogni collegio di giudici del lavoro si divide in sezioni, per il più sollecito disbrigo dei giudizi. Le sezioni riunite costituiscono il giudizio di appello.

Art. 32 – I giudici di secondo grado giudicano su tutte le questioni civili, commerciali e penali che non sono di competenza dei giudici municipali e dei giudici del lavoro – (salve quelle di spettanza della giuria) – e funzionano da Tribunale d’Appello per le sentenze dei giudici municipali. I giudici di secondo grado sono scelti in base a concorso dalla Corte Suprema, fra i cittadini muniti della laurea di dottore in legge.

Art. 33 – Tutti i delitti politici e tutti i crimini e delitti che comportano la privazione della libertà personale per un tempo superiore ai tre anni sono giudicati da una giuria composta di sette cittadini assistiti da due supplenti e presieduti da un giudice di secondo grado.

Art. 34 – La Corte Suprema viene eletta dall’Assemblea Nazionale e si compone di 5 membri effettivi e due supplenti. Almeno due dei membri effettivi ed un supplente dovranno essere muniti della laurea di dottore in legge.

La Corte Suprema è competente a giudicare:

a) sulla costituzionalità degli atti dei poteri legislativo ed esecutivo;

b) su tutti i conflitti di carattere costituzionale fra i poteri legislativo ed esecutivo, fra la Repubblica ed i Comuni, fra i Comuni fra loro, fra la Repubblica e Corporazioni o privati, fra i Comuni e Corporazioni o privati;

c) sui casi di alto tradimento contro la Repubblica ad opera di membri del potere legislativo o esecutivo;

d) sui crimini e delitti contro il diritto delle genti;

e) nelle contestazioni civili fra la Repubblica ed i Comuni; fra i Comuni tra loro;

f) sui casi di responsabilità dei membri dei poteri della Repubblica e di funzionari;

g) nelle questioni circa i diritti di cittadinanza e circa i privi di patria.

La Corte Suprema giudica inoltre le questioni di competenza fra i vari organi giudiziari, rivede in ultima istanza le sentenze pronunziate da questi, e nomina i giudici di secondo grado in base a concorso.

I membri della Corte Suprema non possono coprire alcuna altra carica, neppure nei rispettivi comuni, né esercitare qualsiasi altra professione, industria o mestiere per tutta la durata della carica.

Del Comandante

Art. 34 – In caso di grave pericolo per la Repubblica l’Assemblea Nazionale può nominare un Comandante per un periodo non superiore ai sei mesi. Il Comandante durante il periodo in cui rimane in carica esercita tutti i poteri politici e militari, sia legislativi che esecutivi. I membri del potere esecutivo funzionano come suoi segretari. Può essere eletto Comandante qualunque cittadino, nel possesso dei diritti politici, facente parte o no dei poteri della Repubblica.

Allo spirare del termine fissato per la durata della carica del Comandante, l’Assemblea Nazionale si riunisce nuovamente e delibera sulla conferma in carica del Comandante stesso, sulla sua eventuale sostituzione o sulla cessazione della carica.

Della difesa nazionale

Art. 35 – Tutti i cittadini della Repubblica, senza distinzione di sesso, sono obbligati al servizio militare nell’età dai 17 ai 52 anni per la difesa della Repubblica.

Gli uomini dichiarati validi presteranno questo servizio nelle varie armi dell’esercito. Le donne e gli uomini non validi saranno adibiti, secondo le loro attitudini, ai servizi ausiliari, amministrativi e di sanità.

Tutti coloro che a causa del servizio militare perdono la vita o soggiacciono ad un’imperfezione fisica permanente, hanno diritto per sé e per le loro famiglie in caso di bisogno, al soccorso della Repubblica.

Art. 36 – La Repubblica non può mantenere truppe permanenti. L’esercito e la flotta della Repubblica saranno organizzati sulla base della Nazione Armata con apposita legge. I cittadini prestano il servizio militare soltanto per i periodi d’istruzione od in caso di guerra per la difesa del paese.

Il cittadino non perde nessuno dei suoi diritti civili e politici durante i periodi d’istruzione o quando venga chiamato in servizio per la difesa della Repubblica, salve le necessità del servizio militare.

Dell’istruzione pubblica

Art. 37 – La Repubblica considera come il più alto dei suoi doveri l’istruzione e l’educazione del popolo, non soltanto per quel che riguarda la scuola primaria o professionale, ma anche per le manifestazioni superiori della scienza e dell’arte, che devono essere rese accessibili a tutti coloro che dimostrano capacità d’intenderle.

Le scuole superiori esistenti verranno perciò riunite in un’Università libera e completate con nuovi corsi e facoltà, in base ad una apposita legge la quale dovrà contemplare puranche la istituzione di una scuola di Belle Arti e di un Conservatorio Musicale.

Art. 38 – L’organizzazione delle Scuole medie e affidata alla Camera dei Rappresentanti e quella delle Scuole tecniche e professionali al Consiglio Economico. Nelle Scuole medie sarà obbligatorio l’insegnamento delle diverse lingue parlate nel territorio della Repubblica.

L’istruzione primaria è gratuita ed obbligatoria. Essa resta affidata ai Comuni che la organizzano in base a programmi stabiliti da un Comitato di Istruzione primaria composto di un rappresentante per ciascun comune, di due rappresentanti delle scuole medie, di due rappresentanti delle scuole tecniche professionali, e di due rappresentanti degli istituti superiori, eletti dagli insegnanti e dagli studenti.

L’insegnamento primario verrà impartito nella lingua parlata dalla maggioranza degli abitanti di ciascun comune accertata, ove occorra, per mezzo di referendum; ma fra le materie d’insegnamento dovrà in ogni caso essere compresa la lingua parlata dalla minoranza. Inoltre quando lo richieda un numero di alunni sufficiente, a giudizio del Comitato per l’istruzione primaria, il Comune sarà obbligato ad istituire corsi paralleli nella lingua parlata dalla minoranza.

In caso di rifiuto da parte del Comune, il Governo della Repubblica ha diritto d’istituire esso stesso i corsi paralleli caricandone la spesa al Comune.

Art. 39 – Le scuole pubbliche devono poter essere frequentate dai seguaci di tutte le confessioni religiose e da chi non professa nessuna religione, senza pregiudizio della libertà di coscienza di chicchessia.

Della revisione costituzionale

Art. 40 – Ogni dieci anni l’Assemblea Generale si riunisce in sessione straordinaria per la riforma della Costituzione.

La Costituzione può però esser riformata in ogni tempo:

a) quando lo chieda uno dei due rami del potere legislativo;

b) quando lo chieda almeno un terzo dei cittadini aventi diritto al voto di cui all’art. 12.

Sono in diritto di proporre modificazioni alla Costituzione:

a) i membri dell’Assemblea Nazionale;

b) le rappresentanze dei Comuni;

c) la Suprema Corte;

d) le Corporazioni.

Del diritto d’iniziativa

Art. 41 – I componenti dei corpi elettorali hanno diritto di proporre leggi di loro iniziativa sulle materie spettanti ai rispettivi corpi legislativi, purché l’iniziativa sia proposta da almeno un quarto dei componenti il corpo elettorale competente.

Del referendum

Art. 42 – Tutte le leggi approvate dai due rami del potere legislativo possono essere sottoposte a referendum quando questo sia chiesto da un numero di elettori non inferiore ad un quarto dei cittadini aventi diritto al voto.

Del diritto di petizione

Art. 43 – Tutti i cittadini hanno diritto di petizione in confronto dei corpi legislativi che hanno diritto di eleggere.

Incompatibilità

Art. 44 – Nessuno può esercitare più di un potere o far parte contemporaneamente di due corpi legislativi.

Revocabilità

Art. 45 – Tutte le cariche sono revocabili:

a) quando gli eletti perdano i diritti politici mediante sentenza confermata dalla Corte Suprema;

b) quando la metà più uno dei componenti il corpo elettorale voti regolarmente la revoca.

Responsabilità

Art. 46 – Tutti i membri dei poteri e tutti i funzionari della Repubblica sono penalmente e civilmente responsabili dei danni che possono derivare alla Repubblica, ai Comuni, alle Corporazioni od ai privati in caso di abuso o di trascuranza nell’adempimento dei propri doveri. La Corte Suprema giudica su questi casi. I membri della Corte Suprema sono giudicati in questi casi dall’Assemblea Nazionale.

Indennità

Art. 47 – Tutte le cariche contemplate dalla Costituzione sono retribuite mediante indennità da fissarsi per legge votata annualmente dall’Assemblea Nazionale.

FONTE: G. Negri e S. Simoni, Le Costituzioni inattuate, Editore Colombo, Roma 1990.

 

LA CARTA DEL CARNARO 1920  – TESTO DI GABRIELE D’ANNUNZIO

Della perpetua volontà popolare

Fiume, libero comune italico da secoli, pel voto unanime dei cittadini e per la voce legittima del Consiglio nazionale, dichiarò liberamente la sua dedizione piena e intiera alla madre patria, il 30 ottobre 1918. Il suo diritto è triplice, come l’armatura impenetrabile del mito romano. Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe. E questo è il suo diritto storico. Fiume, come già l’originaria Tarsàtica posta contro la testata australe del Vallo liburnico, sorge e si stende di qua dalle Giulie. È pienamente compresa entro quel cerchio che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’Italia. E questo è il suo diritto terrestre. Fiume con tenacissimo volere, eroica nel superare patimenti insidie violenze d’ogni sorta, rivendica da due anni la libertà di scegliersi il suo destino e il suo compito, in forza di quel giusto principio dichiarato ai popoli da taluno dei suoi stessi avversari ingiusti. E questo è il suo diritto umano. Le contrastano il triplice diritto l’iniquità la cupidigia e la prepotenza straniere; a cui non si oppone la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria vittoria. Per ciò il popolo della libera città di Fiume, sempre fiso al suo fato latino e sempre inteso al compimento del suo voto legittimo, delibera di rinnovellare i suoi ordinamenti secondo lo spirito della sua vita nuova, non limitandoli al territorio che sotto il titolo di «Corpus separatum» era assegnato alla Corona ungarica, ma offrendoli alla fraterna elezione di quelle comunità adriatiche le quali desiderassero di rompere gli indugi, di scuotere l’opprimente tristezza e d’insorgere e di risorgere nel nome della nuova Italia. Così, nel nome della nuova Italia, il popolo di Fiume costituito in giustizia e in libertà fa giuramento di combattere con tutte le sue forze, fino all’estremo, per mantenere contro chiunque la contiguità della sua terra alla madre patria, assertore e difensore perpetuo dei termini alpini segnati da Dio e da Roma.

Dei fondamenti

I – Il popolo sovrano di Fiume, valendosi della sua sovranità non oppugnabile né violabile, fa centro del suo libero stato il suo «Corpus separatum», con tutte le sue strade ferrate e con l’intiero suo porto. Ma, come è fermo nel voler mantenere contigua la sua terra alla madre patria dalla parte di ponente, non rinunzia a un più giusto e più sicuro confine orientale che sia per essere determinato da prossime vicende politiche e da concordati conclusi coi comuni rurali e marittimi attratti dal regime del porto franco e dalla larghezza dei nuovi statuti.

II – La Reggenza italiana del Carnaro è costituita dalla terra di Fiume, dalle isole di antica tradizione veneta che per voto dichiarano di aderire alle sue fortune; e da tutte quelle comunità affini che per atto sincero di adesione possano esservi accolte secondo lo spirito di un’apposita legge prudenziale.

III – La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo – «res populi» – che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo e per ordinamento le più larghe e le più varie forme dell’autonomia quale fu intesa ed esercitata nei quattro secoli gloriosi del nostro periodo comunale.

IV – La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli officii, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e più ricca la vita comune. 

V – La Reggenza protegge difende preserva tutte le libertà e tutti i diritti popolari; assicura l’ordine interno con la disciplina e con la giustizia; si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezioni e di menzogne; costantemente si sforza di elevare la dignità e di accrescere la prosperità di tutti i cittadini, cosicché il ricevere la cittadinanza possa dal forestiero esser considerato nobile titolo e altissimo onore, come era un tempo il vivere con legge romana. 

VI – Tutti i cittadini dello Stato, d’ambedue i sessi, sono e si sentono eguali davanti alla nuova legge. L’esercizio dei diritti riconosciuti dalla costituzione non può essere menomato né soppresso in alcuno se non per conseguenza di giudizio pubblico e di condanna solenne.

VII – Le libertà fondamentali di pensiero, di stampa, di riunione e di associazione sono dagli statuti guarentite a tutti i cittadini. Ogni culto religioso è ammesso, è rispettato, e può edificare il suo tempio; ma nessun cittadino invochi la sua credenza e i suoi riti per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge viva. L’abuso delle libertà statutarie, quando tenda a un fine illecito e turbi l’equilibrio della convivenza civile, pu
Data: 23/03/1919

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