La necropoli di Anghelu Ruju, Alghero (SS)


Le case delle fate

Con questo poetico nome vengono chiamate le domus de janas, tombe scavate nella roccia tipiche della cultura preistorica sarda. In Sardegna finora ne sono venute alla luce circa 2.400, anche se gli studiosi pensano che ne esistano molte altre ancora da scoprire. La datazione dei siti varia dalle fasi finali del neolitico (3.500 a.C. ca.) fino alla fine dell’età del bronzo (2.800 a.C. ca.), alle soglie della storia propriamente detta. Ma chi ha costruito queste misteriose tombe? E come si spiega questa particolarissima tipologia costruttiva presente solo in Sardegna?

Non solo nuraghi

Se si parla di Sardegna preistorica vengono subito in mente nuraghi e cultura nuragica, ma le attestazioni archeologiche e antropiche nell’isola risalgono a molto tempo prima, tanto che si parla di cultura prenuragica. In questa fase si svilupparono in Sardegna delle “culture”, cioè delle manifestazioni sociali, economiche, spirituali e artistiche di un certo spessore, come la cosiddetta “cultura di San Ciriaco” e la “cultura di Ozieri”. Le caratteristiche delle genti che hanno creato queste rudimentali forme di società sono la vocazione prevalentemente agricola, l’abilità artigiana con la produzione di pregiate ceramiche, l’adorazione della Dea Madre, del Sole e del Toro. 

Influenze orientali

I vasellami rinvenuti, di grande qualità, richiamano da vicino i manufatti cicladici e cretesi. Si è supposto dunque che queste civiltà abbiano un’origine orientale o che, comunque, abbiano avuto dei contatti frequenti con le popolazioni dell’Egeo. Questa ipotesi è avvalorata dalla spiritualità degli antichi sardi che, come tante altre culture del bacino del mediterraneo orientale, adoravano la Dea Madre e la ritraevano in statuette steatopigiche (dalle forme accentuate) come simbolo propiziatorio di fecondità e fertilità. 

Ma non basta, la ricorrente simbologia delle corna taurine (contraltare maschile della Dea Madre), è strettamente legata alla cultura cretese in cui, come è noto, il toro ricopriva un ruolo fondamentale; basti pensare al mito del Minotauro o alla famosa “taurocatapsia”, l’acrobazia rituale che i giovani cretesi compivano afferrando il toro per le corna (attività tuttora praticata nel sud della Francia, a dimostrazione di una tradizione millenaria fortemente radicata nel Mediterraneo). La simbologia del toro ha dato origine ai menhir, colonne di pietra falliche conficcate nel terreno, presenti in gran numero in Sardegna, ma anche in svariate altre parti del mondo. Inoltre, protomi taurine, spesso accolgono il visitatore che visita le domus de janas, probabilmente come segno d’auspicio, mitigatore dell’idea di morte.

E dopo la morte?

E proprio il culto dei defunti è uno dei tratti più distintivi di queste culture protosarde. Le inumazioni che praticavano sono un segno di una credenza di vita – o per meglio dire – rigenerazione dopo la morte. In molte domus de janas e in altri monumenti sacri prenuragici (come ad esempio nell’altare megalitico di Monte d’Accoddi) sono state trovate tracce di colorazioni rosso ocra, colore ctònio per eccellenza, ma anche simbolo propiziatorio di fertilità e vita. 

Nomen omen

Chissà se il signor Angelo Ruju (o in dialetto sardo Anghelu Ruju) avrebbe mai pensato che il suo nome sarebbe diventato così famoso. Da proprietario dell’appezzamento di terra in cui è stata ritrovata la più grande necropoli ipogeica della Sardegna, si è infatti ritrovato a dare il nome con il quale questo sito è universalmente conosciuto. Eppure il caso aveva voluto che Angelo avesse un cognome che richiamava una caratteristica peculiare delle domus de janas, il colore rosso di cui abbiamo appena parlato: “ruju” in sardo vuol dire proprio rosso!

La necropoli

Il ritrovamento del sito fu casuale. Alcuni resti umani e suppellettili furono ritrovati ai primi del ‘900 durante i lavori di costruzione di una casa colonica appartenente ad un’azienda vinicola tuttora presente nei pressi del sito archeologico. Fu chiamato allora il celebre archeologo Antonio Taramelli, udinese di nascita ma “sardo” d’adozione poiché compì i suoi maggiori scavi proprio nell’isola, contribuendo enormemente alla conoscenza della civiltà prenuragica, nuragica e della presenza fenicio-punica in Sardegna. 

Lo studioso si rese subito conto di essere di fronte ad un sito di dimensioni notevoli: nel corso degli anni furono ritrovate ben 38 domus de janas, organizzate in più ambienti (tranne una). Gli ingressi sono di due tipi: a pozzetto (dall’alto verso il basso) o a dromos, cioè corredati di un corridoio d’accesso, simile a quello delle tombe micenee. Le decorazioni sono quelle atte a simboleggiare l’aldilà: protomi taurine, false porte di accesso, colorazione rosso ocra. All’interno delle nicchie sepolcrali sono stati trovati i resti ossei dei defunti in posizione supina o fetale, oltre a diversi oggetti che costituivano il corredo funebre: manufatti ornamentali, stoviglie litiche e di bronzo, statuine raffiguranti la Dea Madre. Proprio questi oggetti hanno permesso di datare il sito ad un periodo che va dal 4.200 al 1.800 a.C.



La necropoli di Anghelu Ruju
Indirizzo: Strada Provinciale 42 dei Due Mari, 07041 Alghero SS
Alghero (SS)
Telefono: 329 438 5947
Sito: https://www.necropoliangheluruju.com

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